Assassinio Lidia Macchi, ennesimo colpo di scena: indagato un compagno di liceo: sarebbe l'autore della lettera inviata ai genitori il giorno dei funerali. Storia di un delitto imperfetto - Famiglia Cristiana

2022-09-17 12:35:43 By : Ms. Laurel Zhang

(nella foto: i funerali di Lidia Macchi) Quella lettera me la ricordo bene, ce l’ho impressa nella retina: me la fece vedere a Varese una mattina un bravo investigatore cui ancora capitava di trascorrere notti insonni per non essere riuscito a risolvere il caso. Non me la fece nemmeno prendere in mano, trattandosi di prove istruttorie e la rimise subito nel fascicolo, ma la fissai per un attimo: la scrittura era precisa, in stampatello, nitida, ordinata, certamente ricopiata da una minuta, come se il mittente volesse fare ordine nei suoi pensieri confusi. Si intitolava "In morte di un'amica". Era piena di riferimenti biblici, frasi in latino e sensi di colpa: gli esperti consultati dagli investigatori dicevano che c’erano delle conoscenze approfondite delle sacre scritture. Si pensava a un prete o a un diacono, insomma a qualcuno abituato ad avere a che fare con la Bibbia. Conteneva oscure allegorie medievali, si parlava della "tetra signora", che "grida alte le sue ragioni". Troppi particolari, troppi dettagli per pensare a un mitomane. "E tu, agnello senza macchia, e tu agnello purificato". Quella missiva avrebbe fatto un percorso inverso, riconducendo al mittente, quasi 30 anni dopo. E infatti è stato proprio partendo da questa lettera, inviata alla sua famiglia il giorno del suo funerale, il 9 gennaio 1987, che gli investigatori sarebbero giunti all'ultimo indagato per l'assassinio di Lidia Macchi, uccisa da 29 coltellate e abbandonata in un bosco nei pressi di Cittiglio, nel Varesotto. Un documento che gli investigatori hanno sempre considerato importante, in mezzo all'oceano di lettere inviate da mitomani e balordi. Lidia era una studentessa ventenne legata agli scout e a Comunione e liberazione, bella, intelligente e molto sensibile. Nelle foto ha un viso acqua e sapone, senza trucco, triste e radioso allo stesso tempo. Aveva la passione della scrittura, componeva versi molto belli. “Lidia scriveva dappertutto, sui quaderni, a margine di un libro, dietro una foto, sui tovaglioli di carta, perfino sul compensato dei tavoli, era profonda, acuta, si interrogava spesso sul senso della vita”, mi disse il padre ricevendomi per un'intervista un anno dopo la sua morte, in una villa nei pressi del lago di Varese.  Un signore con la barba, molto distinto, deciso, ma dallo sguardo segnato, come di chi pensa continuamente a  qualcosa. Quello sguardo, quel rovello, come un secondo canale della mente che filtra dagli occhi, nella mia attività di cronista lo avevo ritrovato in molti parenti di vittime e in molti assassini. Da fuori, era lo stesso sguardo, almeno così mi è sempre sembrato.  Era uscito un libro che raccoglieva le poesie di Lidia, versi importanti, mai banali, a volte lievi ma spesso anche drammatici, inquieti e tormentati, che conquistavano chi li leggeva: Fiori recisi sul ciglio in un lago d’acqua. Uomini uccisi nel mondo in un lago di sangue. E’ la violenza e il seme dell’amore, gettato sulla strada secca, nessuno lo raccoglie. Calpestato grida acqua. O ancora: All’alba della nostra vita siamo come un’unica barca sperduta e senza meta. La luce amica, la speranza dell’incontro, una meta. E non più. Solitudine e gioia dell’incontro e la comunione nella Sua luce eterna. “Mia figlia era una ragazza di grande fede che si faceva sempre domande", mi raccontò. "I giornalisti che vengono a casa mia per intervistarmi su Lidia vengono con l’idea di scrivere la cronaca di un delitto perfetto e ne escono sconvolti, conquistati da mia figlia, dalla sua dolcezza, dalla sua sensibilità, ma anche dalla sua profondità e finiscono per soffermarsi sulla vittima, più che sull’assassino”. Io non feci eccezione. Sulla copertina del suo libro postumo di poesie sorride guardando fuori campo, i capelli corvini lievemente spettinati, un maglione di montagna bianco di lana grossa, un sorriso smagliante. Tra le sue lettere, ve ne era una - molto intensa e profonda - sul suo incontro con don Giussani, diffusa integralmente dal settimanale "Tempi", proveniente dall'archivio personale del direttore de periodico Luigi Amicone: Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l’unica con questo desiderio, in questo mondo superficiale – perché vuole essere tale – urlerò fino a squarciagola, finché morirò, quello che io sento. Un mese fa mi è capitato, quasi per caso, di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori, e al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno molto colpito e spiegava tutti i procedimenti tecnici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti. Mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente (… )Io sento che devo parlargli, che lui non ha calpestato le domande che si agitano dentro di me, avrei molte cose da chiedergli, in un modo o nell’altro devo incontrarlo ancora.  

Un caso maledettamente difficile quello di Lidia Macchi, che si è trascinato tra archiviazioni e false piste. La studentessa era scomparsa il cinque gennaio del 1987, in un gelido inverno, come erano gelidi gli inverni degli anni '80 in provincia di Varese ("Perché io, perché tu, perché in questa notte di gelo", si legge nella lettera). Nel pomeriggio Lidia era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio, ma la sera non era rincasata per cena. I genitori avvisarono i carabinieri e si rivolsero ai giornali per diramare le foto della figlia. La mobilitazione per le ricerche fu grande, non solo da parte delle forze dell’ordine: anche tanti amici del movimento di Cl e degli scout si organizzarono in squadre e cominciarono a battere palmo a palmo la zona. Fu proprio un gruppo di amici che ritrovò il suo corpo, coperto alla rinfusa da cartoni, accanto alla sua Panda, la mattina del 7 gennaio. Lo sportello dell'auto aperto, la spia della riserva accesa. Il corpo, rivestito in modo “inusuale”, come recita il referto della polizia scientifica, era stato martoriato dalle coltellate e poi ricomposto in quel luogo, da cui partiva un sentiero nascosto che arrivava alla stazione Nord di Cittiglio.  Le indagini appurarono che l’omicidio, probabilmente causato da un raptus, era avvenuto in un altro luogo. Nessuno straccio di movente.  Invetigatori e magistrati puntarono al suo ambiente, sfiorarono un sacerdote vicino a Cl, poi, negli anni, si accentrarono intorno a un altro indagato, un ex imbianchino e pizzaiolo abitante nella zona, già condannato all’ergastolo per il “delitto delle mani mozzate”, poi scagionato definitivamente. L’inchiesta ha proceduto immergendosi e poi riaffiorando a fasi alterne, ma senza risultati apprezzabili, in un oceano di mitomani, testimonianze e voci che si accavallavano. Si diceva che era stato un maniaco. Un giornale scrisse che era finita nel mirino di un uomo sposato, perché sul suo diario parlava di un amore tormentato, ma quale ragazza di vent'anni non prova tormenti per un amore? Nel frattempo cadeva il muro di Berlino, arrivava Tangentopoli, scompariva la Prima Repubblica, l'Italia vinceva di nuovo i mondiali di calcio. Ma le indagini erano sempre a un punto morto, o quasi. Ogni tanto arrivava sulle cronache qualche sussulto, qualche nuovo sospettato. In questi lunghi anni si sono fatte anche le prime indagini del Dna su quattro indagati, ma non si viene a capo di niente.  Nel 2013 il sostituto procuratore di Milano Carmen Manfredda avoca l'inchiesta. In magistratura credo che le donne siano più tenaci. Forse è solo una mia personale opinione, non ho cifre statistiche da offrire, però è indubbio che gran parte dei "cold case" risolti portino la firma di una donna. Fatto sta che  si arriva al colpo di scena di poche ore fa, con l’arresto di Stefano Binda, 47 anni, compagno di liceo di Lidia, dovuto anche a una serie di testimonianze e riscontri. E’ indagato per l’assassinio della studentessa. Sarebbe lui l’autore della lettera, intitolata “In morte di un’amica”. Era già tutto scritto. L’autore l’aveva mandata alla famiglia della vittima perché nel suo inconscio, nella sua mente contorta, voleva che si arrivasse a lui? E’ uno dei tanti misteri di una vicenda che avrebbe interessato Dostoevskij. C'era il tramonto e io mi perdevo nel rosso intenso. E mentre il sole calava, io piombavo nel rosso infinito. Nessuno capirà mai, aveva scritto Lidia in un'altra delle sue bellissime e inquietanti poesie.              

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